Il pre-espressivo della scrittura

di Ugo Volli

Da oltre quarant’anni Agostino Ferrari lavora su quel confine sottile ma decisivo che separa il segnale dal segno. Dato che la sua opera si colloca nel regno del visivo e principalmente (con la notevole eccezione delle sue interessanti maquette tridimensionali) nella tradizione espressiva della pittura novecentesca, il discrimine su cui l’arte di Ferrari principalmente indaga è più esattamente quello che si situa fra formante plastico e scrittura.

Entrambi questi margini sono molto interessanti sul piano teorico ed estremamente fruttuosi su quello della ricerca artistica, come mostra già a prima vista il lavoro di Ferrari. Indagare su tali frontiere ci permetterà, speriamo, di comprendere meglio i quadri. Cominciamo dal primo. Un segno, fin dall’antichità greca, è stato visto come qualcosa che richiama qualcos’altro: aliquid stat pro aliquo, secondo la famosa definizione di Agostino di Ippona, che poi fu (solo parzialmente) ripresa, quindici secoli dopo, da un’altra celebre definizione di segno, quella del ginevrino Ferdinand de Saussure che lo descrisse come il legame indissolubile fra un “significante” e un “significato”, legati fra loro e interdefiniti come le due facciate di un foglio di carta. Non ci può essere significante senza significato e viceversa: ognuno esiste in relazione all’altro e il segno è esattamente questa relazione. Per Agostino e per la maggior parte degli autori antichi il rapporto fra le cose coinvolte in un segno era sopratutto di tipo deduttivo (se c’è fumo, c’è fuoco; se c’è orma, c’è animale). Per Saussure esso era invece “arbitrario” cioè socialmente (e però incoscientemente e involontariamente) istituito; ma esso resta un rapporto fra due termini, che può naturalmente complicarsi ulteriormente, inserendo nel gioco definitorio per esempio anche l’opposizione fra le cose e i pensieri che possono essere significati, o provando a dar conto della figura dell’interprete del segno e della complessità della sua collocazione sociale e personale.  Scrive per esempio Aristotele in un brano citatissimo all’inizio del suo libro sull’interpretazione:

I suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono medesime per tutti, così neppure i suoni sono i medesimi; tuttavia suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell’anima che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti già identici per tutti (De Interpr. 16a, 1-8).

La relazione è complessa, ma anche nella sofisticata analisi aristotelica in quattro livelli, la designazione resta alla base un rapporto binario assai preciso. Ma bisogna distinguere, questo discorso vale integralmente solo per i segni di tipo linguistico, istituiti socialmente, capaci di costituire codici o lingue. In realtà qualunque cosa può fungere in un certo momento da segno, a patto di essere usata come tale. Il fumo dietro una collina, per usare l’esempio molto standard cui abbiamo già accennato, può dirmi di un incendio, informarmi della pulizia che il contadino fa nei suoi ampi, può anticiparmi la dolcezza del focolare domestico, parlarmi di una battaglia di artiglieria, significarmi la romantica condizione contadina o al contrario l’irritante intrusione della civiltà. Dipende dallo stato delle cose e anche dai miei interessi Così una macchia rossa sulla pelle o un’impronta confusa sul suolo, un ramo spezzato, una goccia di liquido, certe forme al microscopio, qualunque cosa sia interpretata come segni. Di per sé non dicono nulla, sono semplicemente quel che sono, determinati oggettivamente da una catena di cause e di effetti, e non hanno senso se non sulla base dell’interesse di chi guarda, del loro contesto, di certe ipotesi che si sia in grado di fare sulla realtà. Questi quasi-segni dispersi dappertutto che interessano il naturalista, l’anatomopatologo, l’investigatore privato e il divinatore – ma soprattutto l’artista – sono chiamati di solito segnali. Qualunque cosa può diventare segnale, a patto che esibisca una differenza rispetto al suo contesto: “differenze che fanno differenza” era l’acuta definizione di Gregory Bateson per questa condizione. È chiaro che una certa salienza percettiva e una certa capacità di preservarsi, dunque di fungere da tracce, sta alla base del loro funzionamento, o piuttosto della nostra capacità di usarli. Mentre un segno vero e proprio ha necessariamente un significato (se no non sarebbe un segno), un segnale può anche essere non interpretato; basta che risalti rispetto al suo contesto. Posso ammirare una macchia gialla sulla montagna, ascoltare la musica del vento o perdermi a seguire le forme disegnate dalle onde sulla sabbia senza che tutto ciò mi dica nulla.

Questa salienza percettiva può essere estremamente interessante sul piano percettivo, capace di suggestione e di coinvolgimento emotivo, può suggerire cioè stati emotivi come il dinamismo e la quiete, l’allegria e la tristezza, può insomma agire tanto a livello estetico quanto a quello passionale. Una nuvolaglia  uggiosa ha effetti su di me come un’emozionante tramonto; un ruscello risonarmi allegramente come una gola spaventarmi – senza bisogno di significare alcunché. È conoscenza comune di artisti, architetti, musicisti, e perfino cuochi e profumieri che è possibile iscrivere, cioè provocare artificialmente segnali e realizzarli in modo tale che abbiamo certi effetti emotivi – agendo direttamente senza l’intermediazione di un significato concettuale o di un riferimento nella realtà.

Da questo punto di vista si può tranquillamente affermare che la maggior parte della pittura contemporanea, tutta quella che si usa raggruppare sotto il nome di astrazione, lavori intorno al meccanismo del segnale, piuttosto che su quello del segno (che era invece piuttosto caratteristico dell’arte rappresentativa del passato e oggi della fotografia e di quella pittura che continua a lavorare nella direzione della rappresentazione, sia pure fra molte cautele e virgolette).

Il confine fra segnale e segno è quello dove agisce anche Agostino Ferrari: un bordo molto delicato, perché non esiste nessuna forma (o nessuna configurazione informale), nessun segnale, insomma, che di per sé abbia una vocazione definita a farsi segno o non l’abbia. Se consideriamo le varie funzioni che un segno può assumere (rappresentare come un’icona, puntare a qualche presenza come un indice, indicare arbitrariamente qualcosa o qualche concetto come un simbolo, essere preso per la sua causa sistematica come un sintomo) vediamo facilmente che qualunque segnale può, in determinate circostanze fungere da segno. Un rettangolo sovrastato da un triangolo con il vertice in alto può essere l’elemento iconico di una casa, una freccia indicale, una lettera dell’alfabeto (simbolica) come la nostra “i”, la traccia sintomatica di un oggetto come la gamba di un tavolo appoggiata a terra. E però è chiaro che in una determinata società, come la nostra, vi è un numero limitato di convenzioni segniche in gioco, sia per le immagini, sia soprattutto per gli elementi simbolici. Insomma vi è uno stile caratteristico dei segni più comuni, che li rende individuabili come tali, anche se non sono più decifrabili.

Questo luogo intermedio fra i segnali più generali e aperti a ogni uso e ciò che nella nostra società individuiamo come segni è il principale spazio d’azione della pittura di Agostino Ferrari. Riconosciamo chiaramente nei suoi quadri dei segnali, delle forme percettivamente forti che ci colpiscono e si fanno ricordare; ma non sappiamo attribuire loro un senso, anche se vediamo chiaramente che sono iscritte e cioè volute in questa dimensione di segnale, costruite ad arte per stagliarsi sul loro cointesto. Ferrari agisce insomma in uno spazio precedente al segno (di pre-segni) che potremmo chiamare pre-espressivo, rubando questo termine al grande regista teatrale Eugenio Barba che l’ha coniato per quelle azioni e le posizioni dei suoi attori che di per sé, nel loro isolamento, non significano ancora nulla di preciso, ma possiedono un’intensità che può essere certamente sfruttata per trasmettere il senso che si desidera attribuire loro: sarà la sin-tassi, l’accostamento e il montaggio dei segnali a permettere il riconoscimento del senso.

È chiaro che questo discorso sull’iscrizione di segnali si deve estendere a buona parte dell’arte contemporanea. La specificità di questo specifico percorso è ulteriore, si situa intorno al secondo bordo di cui abbiamo accennato all’inizio, la distinzione fra formanti plastici e scrittura. Proviamo a illustrare questo punto.  Quelli di Ferrari non sono solamente “pre-segni”, o piuttosto “pre-testi” – vista la loro vasta dimensione –, ma più propriamente “pre-scritture”, configurazioni in cui si coglie la possibilità di una scrittura o piuttosto di un sovrapporsi e di un moltiplicarsi di scritture (negli anni più recenti un sovrapporsi che crea una caratteristica spazialità, un mondo multipiano quasi prospettico in cui le quasi-scritture galleggiano e si allontanano verso una non definita profondità).

Bisogna apprezzare prima di tutto il coraggio e la fecondità di un approccio che prova a lavorare con questo momento nativo e ancora indeterminato del segno, questa potenzialità, per così dire, staminale di forme che non simulano oggetti o non indicano solo energie e tensioni visive, ma le portano alla soglia di ciò che nella nostra società appare scrittura. E bisogna indicare anche il fatto che questa operazione, per così dire sullo stato nascente, si contrapponga a quelle elaborazione calligrafiche caratteristiche della cultura giapponese, di quella ebraica e di quella islamica dove per diversi motivi spesso legati all’interdizione della figurazione vi è una cura dell’elaborazione grafica della scrittura, talvolta così complessa ed esasperata da far perdere la capacità significante almeno a chi non ne conosca il segreto. Queste operazioni infatti partono da una scrittura esistente, da caratteri, ideogrammi, e sensi che vi sono sottesi, per produrre un effetto estetico talvolta ricchissimo e turbinoso; la scrittura insomma vi si perde, vi naufraga come se il senso affondasse volentieri nell’emozione stessa della forma che se ne trae. Qui invece non c’è un senso precedente, viene soltanto mimata la capacità di veicolarlo, dunque esso potrebbe essere in teoria aggiunto un giorno da un Cirillo, da un Metodio (inventori dell’alfabeto cirillico), o da un Messrop Mashot (che disegnò quello armeno), i quali si decidessero a usare questi caratteri per trascrivere una lingua futura.

Vale infine la pena di precisare che l’illusione della scrittura di cui stiamo parlando è etimologicamente ingresso in un gioco (in-ludo) che come tutti i giochi consente di vedere semplificate e in forma di modello certe relazioni, certi effetti, certi piaceri; non è inganno perché non è beffa o imbroglio, ma percorso condiviso che chiede sulla soglia quella “rinuncia all’incredulità”, che è il tributo necessario di ogni lettore di romanzo, spettatore cinematografico, ma anche di ogni spettatore di una rappresentazione pittorica. Qui per godere il gioco è necessario rinunciare a interrogarsi il senso delle iscrizioni che si incontrano, e accettarle per quel che mostrano, per come sono scritte e organizzate senza sapere cosa dicano.

È necessario chiedersi a questo punto perché noi identifichiamo le configurazioni che galleggiano nei quadri di Ferrari e spesso anche quelle che ne costituiscono la fitta texture di fondo con delle scritture. Siamo arrivati così al cuore della seconda soglia introdotta all’inizio di questo ragionamento. Dal punto di vista di quella grammatica fondamentale della comunicazione visiva che in semiotica si usa chiamare analisi “plastica” (la quale non ha nulla a che fare con la tridimensionalità, ma piuttosto con l’organizzazione autonoma del piano espressivo di un segnale visivo) si identificano normalmente tre grandi dimensioni. La prima è quella cromatica, che nelle opere di Ferrari è usata con parca intelligenza, con una prevalenza di tracce nere o eventualmente rosse e di superfici spesso grigie, ocra, seppia, bianche, di recente gialle  e rosse, secondo logiche di chiaro e scuro che servono a tracciare effetti di profondità e tridimensionalità. La seconda è quella topologica, che riguarda l’organizzazione spaziale delle forme, gli effetti di inclusione, le lateralizzazioni e soprattutto la dimensione verticale, che può produrre dinamismi e instabilità. I quadri di Ferrari usano talvolta con maestria questo livello per realizzare sovrapposizioni, tensioni sfondamenti delle superfici apparenti, ma per lo più lo neutralizzano in una continuità che ricopre omogeneamente tutta la superficie della tela.

Quel che ci interessa di più è la terza dimensione, quella eidetica, che determina le caratteristiche delle forme utilizzate. L’originalità e la costanza nel tempo di questo livello nella pittura di Ferrari è evidente a prima vista. Dalle prima opere degli anni Sessanta fino a oggi la pittura di Ferrari organizza sempre delle tracce allungate e annodate – delle pennellate in sequenze di media lunghezza che possono proseguire o intrecciarsi con altre sequenze del genere. La caratteristica fondamentale di queste sequenze è di essere fondamentalmente organizzate in maniera doppiamente lineare: vi è un asse rettilineo intorno a cui si muove la traccia, a sua volta costituita da una linea (una pennellata sola) che si avvolge sopra e sotto la retta di base, disegnando uncini, anelli, gambe, strette curve ricorrenti. È inevitabile interpretare la pennellata come un percorso unico che si svolge sulla retta articolando dei segnali ricorrenti legati fra loro.

Se si tiene presente questa descrizione un po’ faticosa, o si considera direttamente l’immagine, il paragone con la scrittura risulta evidentissimo. Le scritture, tutte le scritture, sono lineari, monodimensionali, con la possibile eccezione del grafitismo azteco, che è organizzato bidimensionalmente per indicare complesse relazioni di pensiero. Le scritture sono lineari perché il linguaggio verbale lo è e probabilmente lo sono anche il pensiero o la coscienza: i suoni si susseguono uno alla volta, accompagnati solo eventualmente da qualche tratto suppletivo “sovrasegmentale” come il tono dell’interrogazione in italiano; i significati, anche se interagiscono in maniera grammaticalmente complessa, funzionano allo stesso modo.

Le scritture ideografiche, sorte indipendentemente in varie civiltà, mettono in serie immagini (icone) più o meno semplificate e più o meno direttamente legate ai pensieri; dunque simulano il processo della coscienza. I linguaggi alfabetici, tutti derivati da un originale semitico o paleoebraico risalente più o meno a tremila anni fa e variamente adattato alle diverse lingue, simulano la successione dei suoni. Le lettere nascono come segni isolati, probabilmente dapprima ideografici e poi riutilizzati per indicare il suono principale o iniziale della parola disegnata, e sono messi in serie secondo convenzioni variabili, da sinistra a destra o viceversa, dall’alto in basso, per ondulazioni bustofrediche. È degno di nota che un po’ in tutte le scritture, la nostra come l’arabo o l’ebraico, l’armeno o il cirillico, si siano sviluppati dei legami fra questi segni di suoni isolati, così come nella voce i singoli fonemi sono sempre legati fra loro. Queste scritture corsive danno dunque il senso visivo non solo della linearità ma anche del legame del linguaggio e la loro articolazione caratteristica in onde anelli, nodi, gambe, aste, fili, tagli, con geminature e inversioni, con frequenti ripetizioni degli stessi elementi, variazioni minori, rispecchiamenti, allontanamenti e rientri rispetto all’asse della scrittura rende senza forse neppure volerlo l’ondulazione melodica, ritmica e d’altezza della scrittura. Le scritture sono fatte insomma di segni elementari (“lettere” o ideogrammi) che si succedono secondo un asse lineare. Questi modelli o tipi sono forme che non riproducono il mondo né stanno da soli ma si organizzano per opposizione reciproca e valgono, come accade del resto anche ai suoni del linguaggio, essenzialmente per la loro capacità di distinguersi fra loro. Come siano fatti non importa, a parte la loro identificabilità e facilità di esecuzione (la caratteristica che porta al corsivo). Quel che conta è che le varie produzioni ricorrenti nella scrittura riproducano adeguatamente il modello, tanto da poter essere identificate come una “a” o una “k”.

Tutte queste caratteristiche si trovano nei grafemi contenuti con mille variazioni ma sostanzialmente costanti nei quadri di Agostino Ferrari. Per certe caratteristiche di maggior dettaglio, per esempio le onde ripetute diritte e invertite che ricordano i nostri caratteri corsivi europei delle “m”, “n”, “u”, “v”, “w”; o per gli occhielli che sono vicini alle “a”, alle “a” e alle “l”, uno spettatore (o piuttosto un lettore) appartenente alla nostra cultura si farà più facilmente l’illusione di una scrittura corsiva europea, stranamente difficile da decifrare; ma anche chi non appartenga alla nostra cultura coglierà questi “formanti plastici” (questo è il nome semiotico per le unità stabili che strutturano in maniera costante le dimensioni eidetica, cromatica e topologica) come possibili grafismi scrittori, “pre-espressivi” non di altri segni che di quelli della scrittura: pre-lettere, per così dire.

E però questa scrittura nei quadri di Ferrari non scrive nulla. Non vi è un senso da decifrare. Il pre-espressivo rinuncia qui ad esprimersi, resta nel mistero della sua virtualità di senso. Non perché non possa strutturalmente, ma perché è riformulato fuori dalle forme casualmente selezionate dalla nostra cultura per le sue lettere. Se qualcuno cercasse una pietra di Rosetta o un algoritmo statistico per decifrare questa scrittura scomparsa come si è provato a fare con l’etrusco o il miceneo, resterebbe deluso. I meccanismi di decifrazione non funzionerebbe perché non c’è nulla da decifrare. Il visivo resta tale senza pretendere in realtà di trascrivere un acustico. L’iscrizione è pura, non rimanda ad altro. Il segnale non è segno, il formante plastico non è scrittura.

Dunque in realtà questi testi visivi dicono in un certo senso la differenza fra il poter-dire e il dire. Come il dio che ha sede in Delfi del frammento di Eraclito, non dicono e non negano: accennano. Rimandano esattamente alla soglia del senso, indicano la non naturalità del rapporto segnico, la contingenza dell’espressione. Mostrano quella barra fra significante e significato sui cui ha tanto riflettuto Jacques Lacan. Qui sta la profondità del pensiero di Ferrari, la sua ostinata ricerca di una vicinanza dell’espressione che sia assenza del senso. Non assurdità, non insensatezza, si badi, non ambiguità ma ben definita assenza di significato che si basa sul fatto che qui i tratti grafici sono semplicemente ciò che sono, un paesaggio astratto di ondulazioni e campi di forza, non qualcos’altro cui rimanderebbero. Non afasia, non emozione negativa del silenzio forzato, non sforzo fallito del dire, semplicemente l’identità della forma a se stessa (mentre il senso è disidentità, aggiunta, es-posizione di altro da sé). Ironia sottile dello spumeggiare di una quasi scrittura che non vuole, non ha proprio voglia di dire alcunché.

Ma c’è di più. La scrittura, ci ha insegnato Platone nel famosissimo inciso del Fedro, si differenzia dall’oralità, perché non può variare, argomentare, “difendersi”; ma si limita (“come i ritratti”, sostiene Platone “che interrogati tacciono”) “a ripetere maestosamente il medesimo”. Ed è per questo che sono necessariamente, forzosamente, fertilmente soggetti a interpretazione. Sullo stesso filone Jacques Derrida ha proposto il concetto di differance (variante omofona ma eterografica della parola corretta difference; in italiano tradotta per impossibilità di riprodurre il bisticcio con una barra: dif/ferenza), per indicare allo stesso tempo la capacità di far differenza della scrittura (quel che sopra abbiamo chiamato salienza percettiva o carattere di segnale) ed insieme il suo potere di differire, cioè di rimandare il senso che veicolano, di trasferirlo nel tempo rispetto alla contemporaneità che è caratteristica dell’espressione orale, di conservarlo per il futuro, di farlo vivere al di là del momento della sua attuazione, consegnandolo ad altri da capire.

Agostino Ferrari non lavora col pre-espressivo negato della lingua, ma più specificamente con quello della scrittura, cioè proprio di questa dif/ferenza. È sullo spessore  temporale di una possibile lingua perduta che abbiamo cercato di ragionare qualche pagina prima per spiegare l’originalità del suo lavoro, il suo specifico gesto espressivo – espressivo solo di sé, non d’altro com’è il caso delle lingue. Dunque, nel suo lavoro è in gioco non solo il bordo del linguaggio, ma anche quello del tempo. L’arte dif/ferisce sempre, per la sua sovrana capacità segnaletica di attrarre l’attenzione dello spettatore, ma anche per la sua vocazione a preservarsi, a rimanere fruibile al di fuori della performance (di solito tenuta segreta, salvo che in certi correnti dell’arte contemporanea) che le ha dato origine. L’arte è insomma sempre traccia di un operare artistico, è ciò che rimane e ci parla anche in un tempo e in uno spazio lontano millenni e continenti.

Nella pittura di cui stiamo parlando l’operazione della dif/ferenza è pienamente in gioco, è doppiamente tematizzata: perché le non-scritture di Ferrari si propongono esattamente per differenza rispetto a ciò cui usualmente riconosciamo il carattere di veicolo linguistico (i segni, le scritture) e anche perché ciò che si perpetua, che si differisce non è un senso, eventualmente suscettibile di cancellarsi con la perdita del codice linguistico, ma un non-senso, un non-ancora significato che è sempre stato non-ancora e dunque è un non-mai, una negazione dell’ordine temporale. Dall’inizio i quadri di Ferrari non tramandano un senso ma l’indicazione che non vi è un senso nei grafismi che lo animano.

Per questo i segnali pre-espressivi di Ferrari navigano in un mondo astratto ma illusoriamente presente, hanno spessore e dimensione fisica, che alla scrittura manca sempre (d’altro ordine è lo spessore semiotico che deriva dalla duplicità di significante e significata). Sono gesti che negano la loro destinazione “naturale” mettendone perciò in crisi proprio la naturalità. Per questo tali mondi sembrano spesso oscillare in una non-esistenza onirica, in una realtà che ha una natura metafisica diversa dalla nostra. Ogni tanto si sarebbe tentati di considerare questo universo sotto la categoria di un surrealismo astratto, cioè di una violazione morbida e accogliente delle strutture di senso in cui abitiamo, di un’eversione del significato del mondo. Per questa ragione la forza immaginativa di Ferrari si fa pensiero, indagine sul senso e critica radicale dei nostri luoghi comuni su di essi; e il suo pensiero si concretizza in variazioni sempre nuove e più profonde sul principio della dif/ferenza.